Autori | Morandini, Cesare |
Anno Compilazione | 1996 |
Provincia | Cuneo
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Area storica | Monregalese. Vedi mappa 1. Vedi mappa 2.
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Abitanti | 3957 (ISTAT 1991); 3961 (SITA 1996).
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Estensione | 26,1 kmq (ISTAT 1991); 26 kmq (SITA 1996).
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Confini | A nord Bene Vagienna, Piozzo e Farigliano, a est Clavesana e Bastia, a sud Mondovì, a ovest Magliano Alpi.
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Frazioni | Centri abitati: Carrù, San Giovanni; nuclei: Bella, Bordino, Calleri-Priorato, Canelli, Cardoni, Cavallone, Conti, Frave, Gonella, Guida, L’Arcurata, Massimina, Massimini, Pagano, Ricci, Rissordo, San Pietro, Santuario Ronchi (nucleo speciale: Santuario), Stazione, Tetti nuovi, Zucchetti (ISTAT 1991). Vedi mappa.
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Toponimo storico | Carugo (1041); Carrutum (1153) [Billò 1980, p. 12]; «Carrucum» (Casalis 1836, p. 642).
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Diocesi | Attestato nella diocesi di Asti a partire dal 1153 [Conterno 1989, p. 15], passa a Mondovì con bolla di Urbano VI del 1388.
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Pieve | Nel 1153 era plebs titolare la chiesa di San Pietro in Gradu; verso il 1200 il titolo passa alla chiesa di Santa Maria intra muros; nel 1345 la chiesa di Carrù ha perso il titolo di pieve ed è compresa all’interno della circoscrizione plebana di Bene [Conterno 1989, pp. 15-22; vd. anche scheda Bene Vagienna].
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Altre Presenze Ecclesiastiche | Perso il titolo di pieve nel Duecento, la chiesa di San Pietro in Gradu risulta soggetta alla chiesa di Ferrania (affidata ai canonici regolari di Sant'Agostino) della circoscrizione plebana di Millesimo (bolla di Innocenzo IV del 27 settembre 1245) con titolo di priorato [Conterno 1989, pp. 18-22]. Nel 1345 è però della diocesi di Asti, come esente da plebatus [Conterno 1989]. Sempre nel 1345 è attestata la presenza di una chiesa Sanctae Margarite de Carruco (Santa Margherita alla Priosa), priorato alle dipendenze dell’abbazia di Sant’Anastasio di Asti [Conterno 1989]. Confraternita dei Disciplinati di San Sebastiano: vedi planimetria.
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Assetto Insediativo | |
Luoghi Scomparsi | Mancano attestazioni.
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Comunità, origine, funzionamento | Il primo documento che attesta l’esistenza di un luogo con il nome di Carrù è una vendita di beni allodiali del 1026 (Vadda 1902, p. 13); la chiesa di San Pietro in Gradu è nominata per la prima volta in un diploma di Enrico II del 1041 (Vadda 1902, p. 13). In un successivo diploma del 1153, la chiesa di S. Pietro è «plebs» della diocesi di Asti, e Carrù viene indicato come «curtis» e «castrum». Una prima traccia dell’esistenza di un comune carruccese può ritrovarsi nell’acquisto fatto nel Duecento da detto comune di una parte dei diritti feudali appartenenti ai signori di Manzano (Vadda 1902, p. 14); un’altra parte veniva acquistata da Mondovì nel 1250 e subito affidata, con il mantenimento della sovranità, ai Bressani (Vadda 1902).
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Statuti | Nell’archivio comunale sono conservati statuti del 1387 in copia del 1595 [A.C.C., cat. 1, cl. 8, fald. 1]. Citati in documenti antichi statuti del 1310, non reperiti.
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Catasti | Nell’archivio comunale sono presenti un catasto napoleonico del 1807-1808 [A.C.C., cat. 5, cl. 5, faldd. 1-17]; testimoniali di presentazione catasti del 1700 [A.C.C., cat. 5, cl. 5, fald. 20], catasto del 1855 [A.C.C., cat. 5. cl. 5, fald. 18]. E' presente un catasto francese in Archivio di Stato di Torino [A.S.T., Sezioni Riunite, Sala Mappe, fasc. 138]. Segnalata in documenti antichi la presenza di catasti – non reperiti – del 1672.
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Ordinati | Nell’archivio comunale sono presenti gli Ordinati 1531-1537, e dal 1731 in poi; carte sparse relative al 1593, 1602, 1610, 1639, 1648, 1738, 1792, 1800, 1840, 1849. Nell’Archivio di Stato di Torino è presente una copia settecentesca di ordinati del 1561 [A.C.C.; A.S.T.].
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Dipendenze nel Medioevo | All’interno della marca arduinica torinese Carrù è una curtis del comitato di Bredulo, affidata al vescovo di Asti insieme a Bene dall’imperatore Ludovico III (Morozzo della Rocca 1894, I, p. 104). Il 31 marzo 1250 la metà di Carrù, ereditata da Audisia dei signori di Manzano è da questa venduta al comune di Mondovì che la manterrà da quel momento nel suo distretto. Mondovì cede tale parte di Carrù ai Bressani, contro la signoria del vescovo di Asti (Morozzo della Rocca 1894, II, p. 34). Nel 1328 i Bressani la donano agli Acaia, per venirne poi reinfeudati (Morozzo della Rocca 1894, III, p. 51). Dopo breve passaggio sotto i marchesi di Monferrato, appartiene ai marchesi di Ceva dal 1372 al 1417, ed ai Savoia dall’anno successivo (Vadda 1902, p. 16).
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Feudo | Dal 1000 circa è infeudata ai signori di Manzano (l’attuale Cherasco). Il 31 marzo 1250 la metà di Carrù, ereditata da Audisia dei signori di Manzano è da questa venduta al comune di Mondovì, e da questo ai Bressani (Morozzo della Rocca 1894, II, p. 34); nel 1328 i Bressani la donano agli Acaia, per venirne poi reinfeudati (Morozzo della Rocca 1894, III, p. 51). I marchesi di Ceva ricevono Carrù da Giovanni II del Monferrato nel 1370, e due anni dopo vengono infeudati di Carrù da Filippo d’Acaia (Morozzo della Rocca 1894, III, p. 226). Dai Ceva la signoria di Carrù passa ai Costa di Trinità nel 1418, aprendo però una lunga vertenza tra le due famiglie sul possesso, che si chiuderà con una sentenza del 1420, e con successive infeudazioni a membri della famiglia Costa nel 1427, 1432, 1472, 1490.
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Mutamenti di distrettuazione | Distretto di Mondovì. Allo scioglimento del distretto monregalese (1699), Carrù entra a far parte della provincia di Fossano; da questa a quella di Mondovì, ed al suo scioglimento (1859) in quella di Cuneo (Atlante storico 1973, tav. 19).
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Mutamenti Territoriali | Nel periodo in cui la chiesa di S. Pietro in gradu ha titolo di pieve (dal sec. XI fino all’inizio del Duecento), la curtis di Carrù si estendeva forse a nord-ovest dell’abitato attuale; questo inizia a svilupparsi attorno al castello in corrispondenza del passaggio della titolarità alla chiesa di S. Maria (già attuato nel 1345, Conterno 1989, pp. 15-22).
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Comunanze | Pascoli comuni di natura antica in regioni Bosco, Priosa, San Pietro; beni enfiteutici in regione Bosco, ancora in parte presenti al momento attuale.
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Liti Territoriali | Lite tra Mondovì e Carrù per i diritti di sfruttamento dell’area del Donio in regione Bainale composta nel 1393 e nel 1447; per il pagamento dei carichi dei proprietari monregalesi in Carrù (1593-96) [A.C.C., cl. 1, fasc.1]; per questioni di dazi e dogane (1750-1779). I confini tra Carrù, Bene Vagienna e Piozzo sono oggetto di ripetute tensioni nel XV secolo, con compromessi e arbitrati nel 1455 e nel 1480 [A.C.B., fald. 349, s 2638, nn. 18-20; A.C.C.,cat. 1, cl. 9, fald. 1; A.C.C., cat. 1, cl. 9, fasc. 1 vd. anche schede Bene Vagenna e Piozzo]. Lite tra Carrù e i signori di Beinette per vicende legate alla bealera di Brobbio (1740-1741); tra Carrù e Piozzo per usurpazioni di beni comuni carrucesi contestuali alla manutenzione della Bealera di Piozzo (1755) [Vd. anche schede Beinette, Bene Vagienna, Mondovì e Piozzo]. |
A.C.B. (Archivio Storico del Comune di Bene Vagienna).
A.C.B., fald. 349, s 2638, nn. 18-20 A.C.C. (Archivio Storico del Comune di Carrù).
A.C.C., cl. 1, fasc.1: Transazione tra la Comunità di Carrù e vari particolari di Mondovì per li carichi ordinari e straordinari (24 luglio 1598). A.C.C., cat 1, cl. 9, fasc. 1. A.C.C., cat. 1, cl. 9, fald. 1: Atti civili di Bartolomeo Giorgio Giovanni Pietro Gio Francesco et Sebastiano figli et heredi del fu Henrietto Massimino concorrenti contro la Mag.ca comunità del presente luogo di Carrù attrici dall’altra (1592). A.C.C., cat. 1, cl. 9, fasc. 1, carte sparse: Comune di Carrù contro comune di Piozzo (1756-1836). A.C.C.,cat. 1, fald. 2: Tribunale civile di Mondovì, causa formale comune di Carrù contro Ferrua Giuseppe ed altri (1875-1879).cat 14, fald. 4, f. 4: Registro de le vie e paschivi de la comunità di carrù scritto da me Hyppolito Boscheto notaio (1562). A.C.C.,Cat. 5, classe 1, fasc. 1: Relazione sul gerbido “Lama dei Tomatis” (1742); fald. 1, Retrovendita tra comunità di Carrù a Gazani per l’alienazione di grano. A.C.C.,cat. 5, cl. 5, fald. 20: Pascoli pubblici (1729); fald. 38: Domande voltura beni livellari 1936-1972. A.S.T. (Archivio di Stato di Torino).
A.S.T., Carte topografiche e disegni, Carte topografiche segrete, Borgonio B 5 Nero, Mazzo 1, v. immagine 2 ("CARTA / DEL / BURGOGNO"). Borgonio (Ingegnere) [Stagnon 1772] Carta corografica degli Stati di terraferma di S.M. il Re di Sardegna. Copie 2 una in fol. 17, compresa la tabella di riunione; colla divisione per governi e la seconda composta di fol. 16 colla divisione della Provincia ed un'altra copia in 4 fol. (Manca la copia composta di fogli 16). Sul verso: "Piemonte". L'originale seicentesco dal titolo "Carta generale de' Stati di Sua Altezza Reale" fu disegnato da Tommaso Borgonio ed inciso da Giovanni Maria Belgrano. Per l'edizione settecentesca qui conservata vennero aggiunti alcuni fogli raffiguranti i paesi di nuovo acquisto incisi da Stagnone su disegni di Castellino, Galletti e Boasso e vennero anche apportate alcune modifiche ai fogli disegnati dal Borgonio. Cfr. anche Carte Topografiche per A e B, PIEMONTE, n. 23 e Carte Topografiche Segrete, BORGONIO B 1 nero. (Data: [1772]) [Autore incisioni:(Giacomo Stagnon/ Stagnone)]. Vedi mappa. A.S.T., Carte topografiche e disegni, Carte topografiche serie III, Mondovì, Mazzo 6, Mondovì. Carta della diocesi, s.d. Vedi mappa. A.S.T., Carte topografiche e disegni, Controllo Generale di Finanze, Tipi annessi alle patenti secolo XVIII, mazzo 4, Carrù, Pianta della casa della Confraternita dei Disciplinanti di S.Sebastiano di Carrù, s.d. Vedi planimetria. Camera dei Conti, Declaratorie art. 620, vol. 3, f. 203: Carrù comunità contro marchese C.V.F.d’Ormea non farsi luogo alla pretesa da detta comunità derivazione d’acqua, mantenersi detto marchese nel possesso, e disponibilità di tutte le acque discorrenti nel territorio di Beinette suo feudo; Camera dei Conti, Sala Mappe, fasc. 138. A.S.T., Sezioni Riunite, Carte topografiche e disegni, Camerale Piemonte, Tipi articolo 663, Carrù, Mazzo 27, Tipo in misura lineale della Bealera di Carrù e superficiale rispetto al sitto attorno la Fabrica del Molino attiguo a detta bealera..., s.d. Vedi mappa. Corte, Paesi per A e B, C, Mazzo 16, n. 2: Estratti dai libri degli ordinati e da quello della recognozione e limitazione delle vie e pascoli comuni del territorio della comunità di Carrù (1561). B.R.T. (Biblioteca Reale di Torino).
B.R.T., Misc. 8, n. 7, p. 15: Instrumentum compromissi inter comune MRegalis et DD Costas et Homines Carruti pro finibus et bealeria Brobii (1447). | |
Bibliografia | Atlante storico della provincia di Cuneo, Novara 1973.
Berra L., Carrù e il suo castello, in «Cuneo Provincia granda» 5 (1956).
Billò E., Aria d’Carù, Carrù 1980.
Casalis G., Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna, III, Torino 1836.
Conterno G., Pievi e chiese tra Tanaro e Stura nel 1388, in La diocesi di Mondovì. Le ragioni di una storia, Mondovì 1989, pp. 9-55.
Fontana L., Bibliografia degli Statuti dei comuni dell’Italia Superiore, Torino 1907.
Manno A., Promis V., Bibliografia storica degli Stati della Monarchia di Savoia, Torino 1891.
Morozzo della Rocca E., Le storie dell’antica città del monteregale ora Mondovì in Piemonte, Mondovì 1894.
Vadda G., Monografia di Carrù con cenni storici sui comuni del mandamento, Dogliani 1902.
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Descrizione Comune | Carrù
La vicenda della storia territoriale di Carrù è molto complessa. Tale complessità è data da motivi politici e da altri squisitamente geografici. Innanzitutto, Carrù è centro politicamente rilevante nel medioevo, in posizione ora di alleanza, ora di contrapposizione con Mondovì; e proprio tale dialettica con il capoluogo di distretto complica la risoluzione di vertenze come quella per il Donio e quella per il diritto di esazione reciproca dei dazi sulle merci. Un motivo invece squisitamente geografico di complicazione delle vertenze, in particolare di quelle legate ai diritti di sfruttamento delle acque canalizzate con comunità confinanti, è il fatto che buona parte del territorio di Carrù, inclinato verso il Tanaro, sia luogo di passaggio di alcune bialere economicamente importanti – in particolare quelle derivate dal Brobbio – la cui gestione coinvolge sia comunità poste a monte che a valle. La posizione di Carrù è di vantaggio evidente rispetto alle comunità poste a valle – Piozzo –, ed infatti una plurisecolare vertenza tre le due comunità si volge quasi sempre a vantaggio di Carrù, ma la vede soccombere quando le liti sono con comunità a monte come, ad esempio, Beinette. Un terzo motivo di feroci controversie territoriali, a cavallo tra il politico e il geografico, probabilmente il maggiore e quello che più contraddistingue Carrù, è la presenza sul territorio di ingenti quantità di terre livellari in un nucleo compatto, legate ad un’area anticamente vincolata ad una sorta di enfiteusi dal vescovo di Asti, anteriore alla nascita dell’insediamento. Si tratta di un territorio con uno statuto particolare, ossia non completamente a disposizione della comunità, ma neanche da essa separato; inoltre ha natura originariamente intercomunitaria, o meglio esterna alle comunità, con le conseguenze immaginabili nei rapporti tra centri contigui. Oltre a generare molte liti per confini, per usurpazioni di privati, per difficoltà nella “legittimazione” – la liberazione dal canone enfiteutico e l’allodializzazione –, i pascoli sui beni livellari costituiscono una vera “palla al piede” per l’amministrazione dei beni territoriali di Carrù, dalla sua nascita come comunità fino ai giorni odierni, anche se probabilmente la loro esistenza ed il meccanismo di sfruttamento ad esse legato sono da porre come motivi basilari del positivo sviluppo dell’attività zootecnica dell’area.
La dialettica tra sistema comunale di gestione delle terre e sistema feudale-ecclesiastico non è esauriente del panorama fenomenico medievale e di età moderna: le terre vincolate dal vescovo di Asti ai canoni enfiteutici, e per questo né comunali né feudali né ecclesiastiche, si sono dimostrate nei secoli impermeabili ai tentativi di completa appropriazione da parte del comune, proponendosi come un terzo sistema di sfruttamento della terra, non riconducibile ad una autorità, ma “autoeternantesi”; oltretutto, proprio per le difficoltà della sua estinzione e riconduzione al sistema allodiale o comunitativo, particolarmente vantaggioso sotto il profilo dello sviluppo della pastorizia. Restando praticamente impossibile la vendita a privati, con iscrizione a catasto, i terreni livellari hanno mantenuto compattezza e omogeneità colturale, come pascoli suddivisi in tante «Lame»; non essendo beni comunitativi tout-court, ed esistendo fin da tempi antichi ricca documentazione su di essi, il comune ha sempre avuto buon gioco nell’evitare per essi le usurpazioni dei privati, e dunque la loro frammentazione. In sostanza infatti la comunità di Carrù gestisce i suoi beni comunitativi e quelli livellari – anche se mai riuscirà a ridurre questi ultimi alla stregua di normali terre comunitative – con rara e costante precisione, combattendo con rigore e spesso risolvendo a proprio vantaggio casi di usurpazione di terreni e diritti d’acqua. Questo fatto, che pone Carrù in una condizione privilegiata rispetto a molte altre comunità dell’area, è dovuto a due fattori. In primo luogo, l’attività agricola e pastorale di Carrù ha sempre tratto il suo vigore dalla presenza delle terre comunitative e livellari, per cui si comprende la cura nel mantenimento da parte della comunità di tali risorse. In secondo luogo, la presenza delle terre livellari ha imposto fin dal medioevo una qualche forma di registrazione delle terre e dei canoni – come risulta ovvio, vista l’origine stessa del nome, da «libellum», ossia quadernetto in cui erano registrati i canoni –, imponendo l’abitudine a lasciare tracce documentarie anche dei beni comuni “normali”, ed a conservarle premurosamente: presupposto probatorio fondamentale per la difesa dalle usurpazioni. Si consideri soltanto, a modo di esempio, la funzione di un Registro del 1562 che elencava anche quei beni antichi risultati usurpati mostrando di conoscerne la vicenda e l’esatta collocazione fisica sul territorio fatto non comune per il periodo: questo si proponeva non come il primo tentativo di mettere “nero su bianco” la situazione dei beni civici, ma come un semplice aggiornamento di altre descrizioni del 1456 e del 1505, resosi necessario per intercorse vicende belliche che avevano generato confusione nella tenuta degli atti comunitativi e nella delimitazione delle pezze comuni, causando liti e controversie [A.C.C., cat. 14, fald. 4, f. 4: Registro de le vie e paschivi de la comunità di Carrù scritto da me Hyppolito Boscheto notaio (1562)]. Sull’autorità di tale Registro si poggeranno, spesso con efficacia, praticamente tutte le liti per usurpazione sei e settecentesche. Vediamo ora più in particolare i motivi principali di lite della comunità di Carrù con comunità vicine: dapprima quelle legate ai beni livellari, che risalgono al medioevo, poi quelle per ragioni d’acqua, per lo più settecentesche, ed infine, sempre del secolo XVIII, quelle doganali con Mondovì. Ci occuperemo poi delle varie tipologie e della localizzazione dei beni comunitativi di Carrù, e delle vicende legate alla loro difesa. Un nodo di grande importanza del territorio di Carrù, per quanto riguarda i rapporti con Mondovì, la costruzione dei confini e la gestione da parte della comunità dei beni di uso civico ed enfiteutici è quello attualmente limitato dalla parte settentrionale del confine con Magliano Alpi (sostituitosi in tempi recenti a quello con Mondovì), ossia la zona definita genericamente come Lama Grande o regione del Bosco. La prima lite fu intentata nel Trecento a proposito del possesso dell’area definita Erzo, o Donio, tra Carrù e Mondovì. Il bosco e le terre coltivabili del Donio erano una parte di una più vasta area, un tempo interamente boschiva, chiamata Selva Bennale in quanto donata nel secolo X dall’imperatore Ludovico III al vescovo di Asti, responsabile dell’amministrazione della corte imperiale di Bene. Già sotto il vescovo di Asti la selva veniva sfruttata senza appartenere a pieno titolo a nessuna comunità o essere assoggettata a regime feudale, e secondo norme ben precise: alcune zone erano «populares», ossia di sfruttamento pubblico, divise tra diverse comunità che le gestivano a loro volta con norme proprie; altre toccavano all’uso signorile (Morozzo della Rocca 1894, I, p. 104). Il Donio era quella parte di tale antica selva Bennale sfruttata direttamente dai signori di Bredolo, da cui l’etimo del nome, ossia contrazione da «domunium dominiorum Breduli» (Morozzo della Rocca 1894, II, p. 147, n. 10). Da questi signori era passata poi alla comunità di Mondovì. Nel 1258 Mondovì aveva concesso il Donio in uso al Bressano, signore di Carrù, ed alla sua discendenza, secondo però modalità specifiche: i Bressani avrebbero potuto godere della terre coltivabili, dei pascoli e dei boschi del Donio, restando però il possesso formalmente a Mondovì; i cittadini monregalesi avrebbero però potuto liberamente lavorarvi dietro pagamento ai Bressani di una taglia; la via Fileta, che attraversava il Donio – oggi, grossolanamente, la strada Magliano-Bene – era da considerarsi in comune tra Carrù e Mondovì, e il Bressano non poteva imporvi alcun pedaggio. Nel corso del Trecento, l’uso del Donio passò da prerogativa signorile a comunitaria; i Carrucesi presero anzi ad esigere pedaggio ai due confini dell’area, al pilone Bianco verso Mondovì e al pilone Servet verso Bene, imponendo arbitrariamente alle due comunità vicine di Bene e Mondovì dei confini territoriali che probabilmente prima non esistevano, e in secondo luogo considerando il Donio come facente parte del proprio finaggio. Il 18 novembre 1392, dopo un anno di controversie, Mondovì intimò a Carrù di desistere dalla riscossione del pedaggio. La risposta di Carrù fu nel segno della rappresaglia, attuata con il rapimento di cittadini monregalesi lungo la via Fileta ed il furto di bestiame. Dopo conseguenti rappresaglie da parte di Mondovì, e la minaccia di invio delle milizie, i Carrucesi impauriti abbandonarono alcune vigne da loro tenute nei pressi del finaggio monregalese, e nel giugno del 1393 inviarono un loro procuratore per la composizione della vertenza. Tale composizione avvenne in quello stesso anno con la mediazione del vescovo di Mondovì Damiano Zoagli: il possesso del Donio fu riconosciuto come prerogativa monregalese, ed il pedaggio imposto da Carrù come illegittimo; entrambe le comunità furono assoggettate al pagamento dei danni inferti l’una all’altra (Morozzo della Rocca 1894, III, p. 95). Si noti però come anche nel lodo di composizione della lite del vescovo di Mondovì sopravviva una concezione dell’area del Donio come di una terra di uso comune per così dire “intercomunitario”, segno della consuetudine che aveva già allora radici secolari in quella Selva Bennale concessa dall’imperatore al vescovo di Asti e da questi lasciata allo sfruttamento – precisamente normato – di più comunità e signori. Infatti, poco dopo avere sancito il possesso del Donio a Mondovì, venne concesso ai particolari di Carrù di fare legna gratuitamente, per uso privato, nel bosco, e fu progettata una bealera da derivarsi dal Brobbio, con partecipazione alle spese comune tra Carrù e Mondovì. Il fatto che, nonostante il lodo vescovile e l’assegnazione a Mondovì del Donio, la situazione dell’area continuasse ad essere incerta e controversa, è attestato dallo strumento di compromesso tra le due comunità del 1447, in cui, a motivo proprio di liti sorte nuovamente circa i confini e su questioni riguardanti la bealera di Brobbio, si ordinò il piantamento di termini che sancissero la via Fileta, nel tratto che tagliava in due il Donio tra il pilone Bianco e il pilone Servet, come confine tra le comunità fino al confine con Bene. Nel lodo del 1393 il Donio per intero, che sappiamo essere tagliato in due dalla via Fileta, era stato assegnato a Mondovì; dunque il confine portato nel 1447 sulla via Fileta medesima doveva in qualche modo spezzare il Donio e assegnarne la parte a est della via a Carrù. L’assegnazione di parte del Donio a Carrù getta allora luce retrospettiva sulla ragione di quella sorta di deroga concessa ai carrucesi dal lodo del 1393, ossia il permesso di far legna gratuitamente nel Donio assegnato a Mondovì: i Carrucesi non avevano intenzione di desistere da quello che per loro costituiva un diritto consuetudinario; probabilmente, tra il 1393 e il 1447 costoro avevano continuato non solo a raccogliere legna, ma a comportarsi come se il Donio fosse ancora destinato al loro sfruttamento, facendo quindi nascere liti e controversie. Considerata la successiva creazione del comune di Magliano Alpi sul territorio già di Mondovì confinante con Carrù, il confine portato nel 1447 sulla via Fileta, anche se rettilineata, corrisponde a quello attuale (BRT, Misc. 8, n. 7, p. 15: Instrumentum compromissi inter comune M.Regalis et DD Costas et Homines Carruti pro finibus et bealeria Brobii [1447]). A fine Cinquecento sorse una controversia tra alcuni particolari di Mondovì abitanti a Magliano, proprietari di appezzamenti di terreno sulle fini di Carrù e soliti sfruttare i pascoli comunitativi carrucesi alla stregua dei particolari di Carrù. Sulla base di una sentenza di «separazione dei carichi», tali particolari monregalesi godevano di uno statuto fiscale privilegiato, in primo luogo appunto perché godevano dei pascoli comunitativi di Carrù, in secondo luogo perché non pagavano carichi (AC Carrù, cat. 14, cl. 1, fasc. 1: Transazione tra la Comunità di Carrù e vari particolari di Mondovì per li carichi ordinari e straordinari [24 luglio 1598]). È verosimile, visto che non si tratta del caso di un proprietario isolato, ma di un discreto numero di proprietari tutti di Magliano godenti degli stessi privilegi, che gli appezzamenti di costoro si trovassero omogeneamente nella stessa zona, e che la ragione dei privilegi stessi dovesse risiedere proprio nella collocazione delle pezze in un’area particolare; ugualmente verosimile, poi, è che tale zona – appartenente al finaggio di Carrù ma occupata da molti particolari di Magliano, villaggio allora nel finaggio monregalese – dovesse trovarsi nelle vicinanze dello stesso Magliano, ossia all’incirca nell’area del Donio interessata dalle vertenze del 1393 e 1447, se non addirittura proprio nella parte del Donio assegnata a Mondovì-Magliano nel 1393 e passata poi a Carrù nel 1447. Dalla lettura del Registro delle vie e pascoli comuni del 1562 sappiamo che un’area, la Lama del Murticio, destinata a pascolo comune, situata lungo il confine con Mondovì-Magliano a sud del Pilone Bianco, quindi pienamente nell’area del Bainale, da tempo immemorabile era stata occupata da proprietari maglianesi, che trovavano assai più comodo recarsi nel bene carrucese che nei pascoli monregalesi. Carrù, vista l’impossibilità di risolvere l’usurpazione e grazie probabilmente alla tenacia dei Maglianesi, aveva dato il permesso all’occupazione delle proprie terre, dietro però la contribuzione di un annua quantità di grano da parte dei Maglianesi, detta «terraglio» (AC Carrù, cat. 14, fald. 4: Registro de le vie e paschivi de la comunità di Carrù scritto da me Hyppolito Boscheto notaio [1562]). È molto probabile che la lite di fine Cinquecento riguardasse proprio l’area della Lama del Murticio, pascolo adiacente o compreso nell’antico Donio. Il privilegio accordato ai proprietari maglianesi dunque parrebbe essere della stessa natura, anche se proveniente dalla “sponda” opposta, dell’altro privilegio accordato ai Carrucesi nel 1393, ossia quello per cui costoro potevano far legna liberamente nei boschi del Donio assegnati a Mondovì; a ben vedere, anzi, sarebbe una sorta di semplice potenziamento dello speciale statuto concesso ai particolari monregalesi fin da quando, nel 1258, il Donio era stato affidato da Mondovì al signore di Carrù: ai Monregalesi era stato permesso di lavorare nel Donio, diventato carrucese, dietro il pagamento di una taglia al Bressano. Il permesso di lavorare al Donio concesso ai Monregalesi del 1258; il permesso dato ai Carrucesi di fare legna nel Donio gratuitamente del 1393; la sentenza di esenzione fiscale concessa ai particolari di Magliano con terreni in Carrù – probabilmente nel Donio carrucese – segnalata come vigente nel 1593: tutte queste concessioni costituiscono deroghe al principio per cui ogni bene comunitativo spetta per il suo sfruttamento alla comunità cui appartiene, e smussano la nettezza dell’appartenenza territoriale, creando come una “fascia di tutti” in corrispondenza del Donio. A ben vedere, non possono che essere il segno del fatto che, anche se i territori erano stati assegnati ad una certa comunità per via di arbitrati ufficiali, la consuetudine e la tradizione di sfruttamento da parte di particolari anche di altre comunità restavano tenaci e provvisti di una grande forza inerziale. Per evitare liti continue, le due comunità erano state dunque costrette a fare concessioni che limavano la nettezza dell’attribuzione alla propria comunità di pezze ancora controverse, o meglio dotate di uno statuto non ufficiale che le faceva considerare come di tutti e di nessuno, in un meccanismo di resistenza al processo di formazione di territori comunali univoci e omogenei, o meglio di rallentamento di questo processo. Tale statuto non poteva che derivare da quello dell’antica selva Bennale, di proprietà del vescovo astese ed in concessione di uso a varie comunità e signori secondo precise norme e topografie, ma sempre senza che alcuna comunità potesse mai rivendicarne il possesso pieno. La lite cominciata nel 1593 si concluse con sentenza del 23 settembre 1596, che obbligava i proprietari di Mondovì-Magliano al pagamento dei carichi «eccetto per il salario di Medico, Cirogico, Maestro di scuola, Sindaci, Custodia al tempo di peste» ed altre tasse minori di carattere personale. I particolari di Magliano avrebbero potuto pascolare i loro animali nei beni comunitativi di Carrù, ma con delle forti limitazioni per quanto riguarda le «bestie lanute» (AC Carrù, cat. 14, cl. 1, fasc.1: Transazione tra la Comunità di Carrù e vari particolari di Mondovì per li carichi ordinari e straordinari [24 luglio 1598]). Nel 1740 scoppiò una lite di particolare virulenza tra la comunità di Carrù ed il signore di Beinette, Carlo Vincenzo Ferreri d’Ormea, uomo di grande potere ai vertici dell’amministrazione dello Stato, a motivo della bealera detta di Brobbio. Tale bealera era stata scavata derivando l’acqua del fiume Brobbio dal territorio di Beinette (regione Albarea), sulla base dapprima di un accordo stipulato in occasione della prima risoluzione della questione del Donio (1393) con Mondovì, e poi di un compromesso del 1447 (Vadda 1902, p. 94). Nel corso del Settecento la situazione particolarmente complessa dei diritti di sfruttamento dell’acqua genera tensioni tra le comunità di Carrù e Magliano da una parte, e Mondovì dall’altra. Nel 1734 alcuni particolari di Carrù e Magliano danneggiano la chiusa che separa le acque, causando un intervento armato dei Monregalesi; ne derivano due processi, uno penale ed uno civile, che si concludono con l’imposizione di risarcimenti dei danni compiuti (Vadda 1902, p. 95). Nel 1740 il marchese d’Ormea – signore di Beinette, e dunque in possesso dei diritti feudali sulle acque scorrenti dal suo territorio – fece un patto con la comunità di Mondovì perché questa potesse trattenere una parte del corso delle acque della bealera di Brobbio dietro annuo pagamento di 24 aurei. Carrù intentò lite, rivendicando il proprio diritto a godere dell’acqua di Brobbio in virtù di accordi stipulati con Mondovì nel 1393 – precedentemente all’infeudazione di Beinette – contestuali alla risoluzione della questione del Donio: tali accordi prevedevano la possibilità che Carrù partecipasse, dietro pagamento di un terzo delle spese, alle acque di una non ancora realizzata bealera di Brobbio della comunità di Mondovì. Per Carrù dunque i diritti sulle acque del Brobbio spettavano a Mondovì e non a Beinette, e sulla base di atti pubblici una parte di quelle acque di diritto monregalese spettavano a Carrù: la situazione non poteva dunque venire modificata unilateralmente da Beinette. I procuratori del marchese ribatterono che i diritti feudali sulle acque erano «inter regalia regum» ossia di proprietà dell’autorità infeudante e spettavano in modo inalienabile al vassallo; pertanto tutti i documenti esibiti da Carrù di concessioni, accordi o vendite di diritti d’acque da Mondovì a Carrù erano da considerarsi invalidi; così pure erano invalidi gli statuti di Carrù del 1310, in cui era sancito un diritto di sfruttamento delle acque di Brobbio, ed allo steso modo un atto del 1443 di cessione di un quarto delle acque di Brobbio da Beinette a Mondovì, ossia quella parte su cui Carrù accampava i suoi diritti. La sentenza del 12 dicembre 1741 accolse le argomentazioni del marchese (AST, Camera dei Conti, Declaratorie art. 620, vol. 3, f. 203: Carrù comunità contro marchese C.V.F. d’Ormea non farsi luogo alla pretesa da detta comunità derivazione d’acqua, mantenersi detto marchese nel possesso, e disponibilità di tutte le acque discorrenti nel territorio di Beinette suo feudo). Carrù fu costretta, dopo uno sfruttamento gratuito durato trecento anni in virtù degli antichi patti tra comunità, a scendere a patti con il potentissimo marchese d’Ormea, che riuscì per vie legali a scalzare la validità di tali patti antichi; Carrù concordò nel 1743 con il marchese un annuo canone di affitto per l’acqua di lire mille (Vadda 1902, p. 94). Il versamento di tale canone d’affitto e delle spese di manutenzione della bealera non furono però solerti dal parte della comunità di Carrù, e nel 1750 i signori di Beinette si videro ancora costretti a ricorrere alle vie legali (Vadda 1902, p. 95). Come già accennato, per la sua conformazione geografica il territorio di Carrù è un luogo di scorrimento di bealere destinate all’irrigazione di terreni di altre comunità, Farigliano e Piozzo. Scorre per circa due miglia nelle regioni carrucesi della Lama Richelma e degli Abbeveratoi, una bealera denominata Piozza, o Bealera di Piozzo, cui sono legati diritti di sfruttamento da parte di quella comunità. Il fatto che Piozzo debba provvedere alla manutenzione del corso d’acqua anche per la parte carrucese, porta nel Settecento ad attriti tra le due comunità. Nel 1716 i Piozzesi cercarono di rinforzare gli argini della bealera usando terra circostante, ossia appartenente al pascolo comunitativo carrucese della Lama Richelma, e ne vennero impediti. Nel 1753 l’impresario della bealera di Piozzo Giorgio Costa pretese di scavare un fosso nella regione degli Abeveratori, e venne multato in ragione della contravvenzione ai bandi campestri di Carrù; due anni dopo, in circostanze analoghe Giuseppe Marrone prese terra dal pascolo comune per riparazioni al terrapieno della bealera, contravvenendo anch’esso ai bandi campestri, ma rifiutando il pagamento della penale e intentando lite. Marrone in sede di lite affermò la consuetudine immemorabile all’uso della terra carrucese per le riparazioni, così come la proprietà di Piozzo della terra degli argini: terra che di recente era stata occupata in deroga a tali consuetudini da Carrù che aveva piantato dei filari di alberi lungo la bealera, alberi che dunque spetterebbero anch’essi a Piozzo. La lite diede però ragione a Carrù, che intimò pure il pagamento dei carichi catastali alla comunità di Piozzo per l’occupazione, con la bealera, del suolo carrucese. Le vertenze però non si conclusero: ancora nel 1829 si registra una lite del medesimo tenore e sostanza di quelle precedenti (AC Carrù, cat. 1, cl. 9, fasc. 1, carte sparse: Comune di Carrù contro comune di Piozzo [1756-1836]). Tra il 1750 e il 1779 si sviluppò una sorta di guerra doganale tra Mondovì e Carrù, vicenda che ha connotati squisitamente politici ma che richiama anche elementi di difesa del territorio da parte di Carrù. Negli anni precedenti il 1750 Mondovì cercò a più riprese di imporre una gabella sulle merci in transito verso Carrù, in deroga ad una tradizionale esenzione reciproca tra le due comunità risalente con tutta probabilità al periodo del distretto monregalese. Il 22 giugno 1749 un convoglio di bozzoli fatto trasportare da Margarita dal conte Paolo Felice Alessi venne multato, ed il conte intentò causa per questo a Mondovì; dalla sua parte si schierò nella lite anche Carrù. La volontà di Mondovì di iniziare a riscuotere la gabella è marcata, e si manifesta anche in una repentino spostamento dell’ufficio del dazio, che venne portato dal Villero, tradizionale luogo di confine tra Mondovì e Carrù, al Martinetto di Bastia. Tale spostamento si giustificava probabilmente con il fatto che, in base a certi «capitoli» del 1602 esibiti da Mondovì nel corso della lite, una qualche gabella tra Carrù e Mondovì doveva esistere, ma per lo più veniva elusa dai Carrucesi con l’aggiramento dell’ufficio della dogana posta lungo l’antica strada del Villero, attuato con un passaggio più a valle, lungo le sponde del Tanaro. Il 27 novembre 1750 una sentenza della Regia Camera pubblicò le tabelle di esazione di Mondovì, specificando che Carrù non era derogata dal pagamento. La comunità di Carrù intentò una nuova lite nel 1759, che procedette fino al 1779. Dallo svolgimento di tale nuova lite emerge come in realtà non vi fossero documentazioni salde dei diritti di riscossione di dazi da parte di Mondovì, così come per stabilire il luogo preciso ove la città aveva riscosso in passato i dazi, ed in che misura, si dovette ricorrere a testimonianze controverse ed incerte. La sentenza del 1779 diede ragione alla comunità di Carrù ritenendo valida la tradizionale esenzione reciproca dei dazi tra le due comunità, ossia ridando valore ad un accordo legato con tutta probabilità ad accordi stipulati nel periodo del distretto monregalese ormai sciolto dalla fine del Seicento (AST, Camera dei Conti, declaratorie art. 616, reg. 1779, I: Carrù contro città del Mondovì. Per manutenzione in possesso dell’esenzione della Gabella grossa di Mondovì [1779]). Carrù, ufficialmente a partire dal 1447, si trova nel possesso di una parte del Donio, che come si è visto era a sua volta quella parte della selva Bennale concessa ai signori di Bredolo dal vescovo di Asti; Carrù infatti aveva nel suo territorio, probabilmente già da prima della lite per il Donio, altre aree provenienti dalla selva Bennale, e dunque almeno in origine destinate, secondo diverse modalità, a sfruttamenti “in concessione” dal vescovo di Asti. L’appartenenza alla selva è data dai toponimi: la regione del Bosco e quella ancora oggi definita come «Bainale», situate la prima a ridosso del confine con Bene, in corrispondenza con la Lama Grande cinquecentesca, la seconda a sud di questa, entrambe all’incirca adiacenti all’antico Donio. Vedremo come i territori circostanti il nucleo del Donio, quelli portanti i toponimi di Bosco e Bennale, che probabilmente o facevano parte del Donio stesso ai tempi della donazione al Bressano, o comunque hanno fatto parte della selva Bennale in tempi relativamente recenti, coincidano praticamente con quei territori giunti fino all’età moderna provvisti di statuto di uso civico od enfiteutico. Per avere una panoramica dei beni di uso civico di natura antica di Carrù disponiamo di due documenti d’eccezione, entrambi del 1561-1562; si tratta del cosiddetto Libro antico della comunità più volte citato a sostegno di vertenze sei-settecentesche, ossia del Registro de le vie e paschivi compilato nel 1562, e di una copia di ordinati del 1561 contenente un parte della descrizione delle vie e dei pascoli comuni di Carrù. Dal Registro ci giungono molte notizie circa i pascoli comuni carrucesi: erano situati nel loro raggruppamento maggiore nella regione del Bainale, e si articolavano in diverse Lame. Una «Lama», secondo la descrizione del Registro, consiste in uno scolaticcio naturale e perenne che si forma negli avvallamenti naturali del terreno, e che permette l’abbeveramento degli animali: ogni Lama dunque corrisponde ad un pascolo, ed il nome della Lama passa, traslato, ad indicare il pascolo tout-court. Dalla descrizione delle varie Lame si evince innanzitutto che a sud della via Fileta, che come abbiamo visto, segnava fin dal 1447 il confine tra Mondovì e Carrù in corrispondenza del Donio, il territorio di Carrù, il cui confine oggi corre lungo la strada Magliano-Bene, doveva essere più esteso, occupando forse per intero la regione denominata Bainale. Le Lame di uso civico carrucese dunque erano disposte a raggera attorno al perno costituito dal Pilone Bianco, ossia l’estremità inferiore del Donio, in cui nel 1447 erano stati piantati i termini del confine con Mondovì: partendo da nord, ossia dal confine con Bene, occupava il Donio carrucese la Lama grande, così chiamata dal ruscello che oltretutto, scorrendo praticamente al centro di tutta la regione del Bainale, in molti documenti dà il nome generico ad una regione ben più vasta del pascolo indicato come Lama Grande nel Registro; a sud della Lama Grande v’erano le tre Lame del Murticio, degli Abbeveratoi e della Richelma, originate da tre ruscelli provenienti da una Lama del Primo che viene definita come «l’origine di tutte le Lame», e che dunque, essendo anch’essa indicata come sede di pascoli comunitativi, ci fa spostare il confine con Mondovì, a sud del Pilone Bianco, nell’attuale territorio di Magliano Alpi; La Lama del Risoldo risulta essere la continuazione a ovest della Lama Grande; non individuate sono la Lama di Tommaso, quella delle Fontanelle, e la Lama Morta (AC Carrù, cat. 14, fald. 4: Registro de le vie e paschivi de la comunità di Carrù scritto da me Hyppolito Boscheto notaio [1562]). Il verbale del consiglio comunale del 23 febbraio 1561 individua invece pascoli comuni in regione San Pietro, coerente al Tanaro, e in regione della Priosa, sulle sponde del Pesio: due regioni che verosimilmente non appartengono all’area circostante o insistente l’antico Donio (AST, Corte, Paesi per A e B, C, m. 16, n. 2: Estratti dai libri degli ordinati e da quello della recognozione e limitazione delle vie e pascoli comuni del territorio della comunità di Carrù [1561]). Cerchiamo ora di analizzare la tipologia del possesso da parte della comunità di ciascuna delle aree indicate dalle relazioni cinquecentesche, e il modo con cui nel corso dei secoli la comunità ha inteso salvaguardare i propri beni di uso civico. Le liti intentate dalla comunità contro usurpazioni di vario tipo si incentrano attorno a tre nuclei di beni: quelli enfiteutici della Lama Grande, i pascoli comunitativi della medesima Lama, e i beni della Priosa attorno al priorato di S. Maddalena. Nel Registro del 1562, la Lama Grande risultava come bene di uso civico usurpato ormai da molti anni da particolari. Trent’anni dopo, nel 1591, presero l’avvio ben cinque liti intentate dalla comunità nei confronti di altrettanti particolari occupanti appezzamenti di varie dimensioni alla Lama Grande; nello stesso anno iniziava una lunga controversia con l’arciprete di Carrù che doveva trascinarsi fino al 1770 (AC Carrù, cat. 1, cl. 9, fasc. 1: Convenzione tra la Comunità e l’Arciprete [1770]). La comunità di Carrù chiede conto dell’occupazione dei pascoli della Lama Grande, regione del Bosco: i cinque particolari rispondono che la loro non è una usurpazione, perché tempo addietro i loro avi avevano acquistato i diritti di sfruttamento da altri particolari, ed ora pagavano regolarmente alla comunità un «annuo livello» in grano. Ad esempio, gli eredi di Henrietto Boschetto si confessano «libellari» (dal libellum su cui venivano registrate le contribuzioni), paganti annualmente alla comunità un quartino di grano per ogni giornata posseduta, in quanto il loro padre aveva acquistato i diritti da tal Boschetto con strumento del 1558. Per parte sua la comunità dichiara di non avere mai stipulato contratti di enfiteusi, ma nemmeno riesce ad esibire una documentazione sufficiente ad estinguere l’occupazione (AC Carrù, cat. 1, cl. 9, fald. 1: Atti civili di Bartolomeo Giorgio Giovanni Pietro Gio Francesco et Sebastiano figli et heredi del fu Henrietto Massimino concorrenti contro la Mag.ca comunità del presente luogo di Carrù attrici dall’altra [1592]). Se buona parte dei beni comuni antichi della Lama Grande (circa 50 giornate) sono in uso enfiteutico a particolari, l’area attorno alla cascina omonima rimane fino al 1591 come pascolo comune. In quell’anno, anzi, la comunità decide di intraprendere la costruzione di alcuni corpi di case ad ampliamento della cascina, sempre per uso pubblico, ed appalta i lavori a Nicolao Daziano, con cui poi sorgono controversie (AC Carrù, cat. 1 classe 9, fald. 1: Atti civili della Mag.ca Comunità di Carruco agente d’una parte contro M.Nicolao Datiano attore dall’altra). In realtà l’inizio dei lavori è contestuale ad un tentativo da parte della comunità di far fruttare finanziariamente il pascolo comune della cascina: infatti è dello stesso anno la cessione alla parrocchia di Carrù dei beni comuni e della cascina, in cambio della riscossione delle decime annuali (AC Carrù, cat. 1, cl. 9, fasc. 1: Strumento di transazione, rogato Moglioni [6 novembre 1591]). La lite – come si è detto, lunghissima, e che coinvolgerà direttamente il vescovo e gli organismi diocesani – prende avvio dal fatto che le decime non vengono mai riscosse dalla comunità, perché i raccolti sono sempre scarsi, e questa tenterà a più riprese di dimostrare nullo l’atto di cessione dei pascoli comuni alla parrocchia (AC Carrù, cat. 1, cl. 9, fasc. 1: Interrogazioni di testi sulle decime dall’arciprete riscosse e prodotti dalla Lama Grande già Pascolo communale gratuito [1634]). Almeno una parte di pascolo alla Lama Grande dovette però rimanere di uso pubblico, oppure venire ceduto dalla parrocchia: è del 1742 una lite intentata dalla comunità contro certo Antonio Filippi per danneggiamenti, dovuti allo scavo di fossi a tale pascolo di uso pubblico (AC Carrù, cat. 1, cl. 9, fasc. 1: Pascolo comune Lama Grande [22 agosto 1742]); nel 1795 la comunità manifesta l’intenzione di alienare a privati un gerbido comunitario detto Lama dei Tomatis, in regione del Bosco, forse lo stesso del 1742 (AC Carrù, cat. 5, classe 1, fasc. 1:Relazione sul gerbido “Lama dei Tomatis” [1742]). Il processo di passaggio dei beni della Lama Grande da pubblici ad enfiteutici risultava dunque in gran parte già compiuto a fine Cinquecento; consideriamo ora il modo di gestione di tali beni nei periodi successivi da parte degli organismi comunitari. Come si è appena visto per il caso della cascina della Lama Grande, la comunità tende a considerare i beni di uso civico come un serbatoio finanziario cui ricorrere nei momenti di bisogno. Nel 1648, per far fronte a debiti di vario genere, il comune delibera di alienare il reddito annuale in grano (chiamato, come si è visto, «terraglio») proveniente dalle ben 300 giornate di terreno in regione del Bosco concesse in enfiteusi a particolari di Magliano (AC Carrù, cat. 1, classe 9, fasc, 1, f. 18: Atti civili 1672 della comunità di Carrù supplicante contro li sig.ri Bartolomeo e Pietro Paulo fratelli Gazani della città di Mondovì). La licitazione va a favore di Agostino Magliano, per lire 1200; la concessione del terraglio ha durata triennale. Nel 1657 tal Giovanni Battista Gazzano acquista i beni del Bosco, ma secondo un contratto che non può avere valore, trattandosi di beni inalienabili di tipo enfiteutico; Gazzano “molesta” però ugualmente i proprietari maglianesi imponendo ad essi il pagamento del terraglio, e la comunità intenta lite: pur esibendo documenti probanti dell’illegittimità dell’atto, ancora nel 1687 il comune cerca con gli eredi Gazani un accordo bonario, perché la lite non ha sortito effetto, e la comunità non riesce ad imporre il proprio diritto alla riscossione del terraglio (AC Carrù, cat. 5, classe 1, fald. 1: Retrovendita tra comunità di Carrù a Gazani per l’alienazione di grano). Per quanto riguarda la valutazione dell’estensione effettiva dei beni enfiteutici della regione Bosco va registrata la curiosa discrepanza tra i dati forniti dalla comunità in vari inventari ed elenchi, e quelli provenienti dall’autorità centrale dello stato raccolti in occasione della Perequazione Generale. Dalle valutazioni della comunità i beni del Bosco erano di circa 50 giornate a fine Cinquecento; avevano un’estensione di 300 giornate nel 1672. Dai dati della Misura generale del 1699, contenuti nei registri della Perequazione settecentesca, i beni comuni complessivi di Carrù hanno l’esorbitante estensione di 2304 giornate piemontesi antiche; il dato è poi sostanzialmente confermato dal Consegnamento del 1715, in cui di giornate 2695 sono i beni comunitativi complessivi, e di 2365 quelli enfiteutici della regione Bosco. Nel 1721, i beni del Bosco si estendono per 2304 giornate, ponendo al primo posto nella provincia di Fossano il comune di Carrù in quanto ad estensione di beni comunitativi in generale (AST, Camera dei Conti, capo 21, m. 88, f. 11r, ff. 12-13: Provincia di Fossano, Comuni ed immuni). Rimasero esenti da registrazione catastale fino al 1733; in seguito agli editti della Perequazione si impose la loro registrazione e tassazione. L’esazione del terraglio venne sospesa per un anno nel 1735 e poi progressivamente ridotta (Vadda 1902, p. 41). I beni giungono fino al Novecento in un’estensione ancora considerevole, nonostante il processo di alienazione. Ancora nel periodo 1936-1972 le pratiche di affrancamento dai canoni comunali, ossia per la commutazione in beni allodiali sono poche: moltissime invece le domande di voltura, ossia le pratiche di passaggi di proprietà che non intaccano la natura enfiteutica dei beni (AC Carrù, cat. 5, cl. 5, fald. 38: Domande voltura beni livellari 1936-1972). Nel 1963 i beni enfiteutici costituiscono un grave intralcio per l’amministrazione comunale: la regione del Beinale, ossia i luoghi sottoposti al terraglio, verranno tagliati dalla costruenda autostrada Torino-Savona. Si noti, per inciso, come il tracciato dell’autostrada lambisca il Pilone Servet, quello che nel Duecento costituiva il limite nord del bosco del Donio. Con delibera n. 49 del 28 dicembre 1963 la giunta di impegna ad evadere con solerzia le moltissime domande di affrancamento (i cosiddetti «atti di legittimazione» dei beni enfiteutici) dei particolari che vorranno vendere o saranno espropriati dai terreni da parte della Società Torino-Savona. Successivamente il comune rinuncia al diritto di prelazione sui terreni, per accelerare ulteriormente le pratiche, e tratta direttamente con la Torino-Savona le vertenze per l’affrancamento dei terreni. Una grande porzione dei beni enfiteutici, giunti intoccati per secoli come un lascito dell’assetto “intercomunitario” della Selva Bannale concessa dell’imperatore al vescovo di Asti, si estinguono così grazie al tracciato della Torino-Savona. Eppure, la consistenza di quello che resta dei beni livellari carrucesi rimane ancora di tutto rispetto: nel 1971 erano registrati circa 150 proprietari di altrettante pezze livellarie (AC Carrù, cat. 5, cl. 5, fald. 38: Terraglio 1972). Tra i beni di uso civico apparentemente non derivanti dall’antico Donio, il nucleo principale è, nel Settecento quello della regione Priosa. Già nel 1561 erano presenti in quest’area pascoli comunitativi (AST, Corte, Paesi per A e B, C, m. 16, n. 2: Estratti dai libri degli ordinati e da quello della recognozione e limitazione delle vie e pascoli comuni del territorio della comunità di Carrù [1561]); a partire dal 1721 sorgono controversie con il priorato della Maddalena, che possedeva una cascina nell’area dei beni comuniativi, e ne occupava abusivamente una porzione dell’estensione di 22 giornate piemontesi antiche (AC Carrù, cat. 1, classe 9, fasc. 1: Gay, Barberis, atti, la comunità di Carrù contro Reginaldi [1721]); negli stessi anni il comune si adopera per risolvere le usurpazioni da parte di contadini che piantano gelsi sui pascoli comunitativi [A.C.C., cat. 5, cl. 5, fald. 20: Pascoli pubblici (1729)]. Nei registri della Perequazione Generale del Piemonte, i dati raccolti nel 1721 indicano una presenza di beni a pascolo comunitativo in Carrù per 257 giornate e 70 tavole [A.S.T., Camera dei Conti, Capo 21, Mazzo 88, f. 11r, ff. 12-13: Provincia di Fossano, Comuni ed immuni]. A metà Settecento i beni comuni, usurpati o meno che fossero, erano di 274 giornate; nel 1797 tali beni venivano stimati in 330 giornate, per la metà usurpate. Nel 1801 i beni a pascolo comunitario, quasi tutti occupati abusivamente da particolari, risultavano di circa 300 giornate, dal catasto napoleonico del 1808-1809 i beni ancora di uso comunitario senza specificazione di enfiteusi erano di 206 giornate e 60 tavole. Nell’Ottocento la documentazione relativa a contenziosi riguardanti i pascoli di uso civico si dirada; i beni paiono però sopravvivere bene al processo di alienazione. Nel 1846 il consiglio comunale delibera di dividere in quattro lotti i beni comunali e di affittarli per periodi novennali. I beni sopravvissuti alle alienazioni allodiali sono dunque i gerbidi della Reculata, i gerbidi della regione Priosa, quelli della regione Richelma e quelli del Piano di San Pietro [A.C.C., cat. 5, cl. 1, fald. 7]. I beni della Reculata non paiono essere di natura antica, ma, secondo un processo già attestato per altri comuni del fondovalle Tanaro, derivano probabilmente da abbandoni di particolari in conseguenza di piene del fiume, e dell’erosione delle acque, che trasforma i gerbidi in ghiaioni sterili. I gerbidi della Reculata sono al centro di una vertenza contro alcuni particolari di Bastia che avevano imposto una servitù di passaggio al terreno comunitativo [A.C.C., cat. 1, classe 9, fald 2: Tribunale civile di Mondovì, causa formale comune di Carrù contro Ferrua Giuseppe ed altri (1875-1879)]. Nel periodo 1952-1977 vengono sfruttati dalle amministrazioni comunali come piantagione di pioppi, che vengono poi venduti all’asta [A.C.C., cat. 5, cl. 1, fald. 15]. |